domenica 28 settembre 2014

Don Bruno Martignon

Don Bruno Martignon, cappellano militare del battaglione Cividale in Albania e Grecia dal 1939 al 1941 e, nel dopoguerra, cappellano dell’Aeronautica e della Marina.
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Nato a Campocroce di Mirano nel 1906 fu ordinato sacerdote dal Vescovo Longhin il 5 luglio 1931.
Don Bruno fu congedato col grado di tenente colonnello e morì il 6 maggio 1974 a Mirano, sepolto nel cimitero del capoluogo. 
Terminata la guerra di Grecia, il 4 Maggio 1941, Don Bruno ricevette l’incarico di ritornare sul Golico per ritrovare, riconoscere e seppellire i soldati Italiani, morti durante i furiosi combattimenti e dispersi su quelle colline, durante l’invasione e la tumultuosa ritirata del novembre precedente.
Furono ritrovate le salme in completa putrefazione, le stesse vennero analizzate scrupolosamente per rilevare il minimo segno di identificazione e tumulate sul posto.
Nello svolgere questo incarico, furono riportati i luoghi di sepoltura dei caduti (circa 250) su alcune mappe la cui accuratezza è stata successivamente appurata da un gruppo di volontari alpini (di Genova, Brescia, Treviso, Udine) che hanno effettuato un sopralluogo in quelle regioni nell’Aprile 2011. I resti dei nostri soldati giacciono ancora dimenticati in quei luoghi, sotto pochi centimetri di terra.
Il gruppo Alpini di Mirano ha scoperto solo nel 2012 la figura di Don Bruno Martignon grazie all'opera di ricerca del Ten. Guido Aviani Fulvio che ha ritrovato qualche anno fa il diario di guerra del cappellano dell' 8° Alpini riproponendolo in un suo libro presentato a Campocroce dove, con precisione e drammaticità, sono stati rievocati gli eventi di quella triste impresa bellica. Si può ritenere che la figura di Don Bruno sia indelebilmente entrata a  far parte della storia del Gruppo Alpini di Mirano e che l’eroismo e la pietà di questo nostro compaesano meriti di essere costantemente ricordata iniziative adeguate.
Nell'assemblea di Soci del Gruppo Alpini Mirano del 20 gennaio 2013 è stato deliberato di aggiungere il nome di Don Bruno a quello del Cap. Costante Martello nell’intitolazione del Gruppo.

Il 18 novembre 2012 Don Bruno Martignon è stato commemorato solennemente a Campocroce con sfilata delle Associazioni d’Arma e Combattentistiche, Santa Messa, deposizione di una corona ai Caduti e, successivamente presso la Chiesetta di Maria Assunta degli Alpini, con lo svelamento di una targa alla memoria.

Dal diario di Don Bruno Martignon – 27 e 28  ottobre 1940
Prevedendo ormai l’imminente entrata in guerra, andai a cerca di quelle ultime pecorelle che per molti motivi non avevano ancora avuto la benedizione di Dio.
Alla 76° compagnia trovai lo stesso lavoro e la stessa preoccupazione che regnavano presso la compagnia comando. Ero presso la 20° compagnia, nella tenda del Capitano Scala, quando, sula sera, capitò l’ordine del principio delle operazioni per l’indomani.
La 20° compagnia doveva, con un’azione di sorpresa, attaccare la caserma greca di confine alle 4 del mattino.
Affrettai le cose: diedi l’assoluzione generale a tutti quelli che l’attendevano, davanti alla tenda. Ho convinzione che quell’atto di dolore, detto da quella stessa massa di uomini inginocchiati con me nel fango, sia stato veramente sincero ed efficace; come sono convinto che quello spettacolo di fede che ammiravo commosso avrebbe stroncato nel nascere il solito sorriso che qualunque spirito superficiale crede di poter fare.
Il Capitano Scala mi vide in quel atteggiamento ed intuì il perché della straordinaria riunione. “Così mi piace!”, disse “A buon mercato, senza tante parole”. “Sai c’è un posto per te”, risposi. “Si, si …”. Ed inchinò la testa anch’egli in mezzo ai suoi Alpini.
Il sottotenente Zanandrea mi attese davanti ai muli; mi prese a braccio e, camminando con un occhio attento agli uomini ed alle bestie che con l’altro scrutando la coscienza, fece la sua confessione.
“Don Bruno, è finita la storia dei lek”. Disse un Alpino mentre imbastava il mulo irrequieto (Don Bruno aveva l’abitudine di far pagare gli alpini che bestemmiavano multandoli con un lek; con la somma raccolta con le bestemmie aveva costruito una cappelletta a Kukes, n.d.a).
“Lo credo bene …; ma i lek che hai pagato non ti dispensavano di fare, anche tu, il tuo dovere. Già, se hai pagato i lek vuol dire che bestemmie ne hai dette …” e cominciai la missione fra i conducenti.
Nella sera indugiammo più del solito in quella specie di mensa del comando di battaglione, fatta di teli da una tenda che volevano riparare dall’acqua, ma che di fatto ce ne rovesciavano in abbondanza sulla testa e sul piatto attraverso i molti buchi che avevano.

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Ufficiali dell’8° Reggimento Alpini a Konitsa.
I discorsi furono, naturalmente, sui due motivi predominanti: “E’ tutto pronto? – Come la sarà?”. Al primo corrispondevano 100 domande del Colonnello ed altrettanti “Si” degli ufficiali; al secondo seguivano ragionamenti dei quali solo la guerra avrebbe rivelato la verità. La conversazione finì in un modo assai brusco. Un colpo di vento ruppe il sostegno della tenda rovesciando acqua e teli addosso a Fiermonte pagandolo in tale maniera del suo ufficio di direttore di mensa.
        

Quella notte non si dormì: bagagli, muli, ordini e, soprattutto acqua e acqua. Lasciai alle salmerie regimentali quanto non fosse di estremamente necessario, compreso il ridottissimo altarino da campo. Nello zainetto bisognava far posto ai viveri di riserva, la quale riserva degli Alpini non fù di solo pane e scatoletta, ma anche di cartucce e di bombe a mano.
Sulla mezzanotte la lunga colonna cominciò a partire sotto la pioggia; il Cividale, la 13° Batteria e la Compagnia Genio. Per la strada gli scrosci d’acqua e le folate di vento ci toglievano anche il desiderio di parlare, costringendoci a chiudere il viso entro la mantellina. Si camminò per qualche ora in una nebbia assai fitta, su un sentiero che, se non sempre era malagevole per la china, era impraticabile per il fango che lo copriva. Davanti stava la 20° Compagnia, cui seguivano la Comando, la 76° e gli altri reparti. Alcuni colpi di cannone, provenienti dalla nostra destra, ci fecero tendere l’occhio ed architettare congetture sulla probabile zona del bombardamento. Il rumore veniva da lontano ed era certo di grossi calibri. Il vento ce lo portava lungo la valle.
L casermetta greca di confine non si meritava questo nome e forse neanche quello di casa: era una catapecchia. I soldati dormivano sopra una specie di assito, fatto di tronchi d’albero spianati con la scure, e fogliame. Dormitorio, cucina e mensa, tutto era in quell’unico locale. La lamiera del tetto era crivellata, le pareti non erano abbastanza umide ed affumicate da non rivelare qualche fiammata di bomba a mano; la porta era levata da un cardine e forata; all’interno tutto era in disordine e c’erano bombe a mano francesi sparse ovunque.
Il prigioniero si era nascosto sotto l’assito, sul cui piano coperte, cartucce, cinghie, giberne, zainetti, in confuso abbandono rivelavano la sveglia improvvisa e l’agitazione convulsa dello sfortunato presidio. Quando un Alpino tolse alcune coperte per farvi sedere il Tenente Mattelig ferito, sentì che l’ultima resisteva ; egli diede uno strappo ben lontano dal pensare alla ragione di quella resistenza, ma un movimento della coperta e l’urto delle nocche sulla tavola rivelarono il misterioso fantasma.
Contemporaneamente all’azione della 20° Compagnia al cippo 9, si doveva svolgere l’azione della 16° al cippo 8, ma l’accordo sull’ora della sorpresa presupponeva la concomitanza di tante condizioni favorevoli che non sempre è nella facoltà dell’uomo di accordare. Quegli alpini si erano portati sotto al cippo ove già da giorni sostava un plotone della compagnia e nelle prime ore del 28 ottobre erano sulla sella dalla quale partiva il sentiero che portava a quella casermetta greca.
La nebbia fittissima aumentava l’oscurità, tanto che fu difficile individuare il sentiero; tre squadre si portarono, con diversa direzione fino alla distanza di 50 metri dalla caserma, ma il fruscio fra i cespugli, che non si poteva evitare, il rumore dei sassi rotolanti dalla china, destarono i cani. Si aggiunsero presto i primi colpi dal cippo di sinistra. I greci posti in allarme, furono nel cortiletto. Si intimò loro la resa, ma risposero manovrando gli otturatori. non c'era che da prevenirli. Tre razzi rossi ruppero le tenebre e l anebbia ed i greci fuggirono.
Dal cippo di confine il Cividale scese verso il paese di Kionat attraversando un bosco. Nessuno ci impediva il cammino; solo qualche albero s’è dovuto abbattere lungo il sentiero per permettere ai muli di procedere. Anche il sole, verso le 10, cominciò a far capolino e ad asciugare la schiena bagnata di pioggia e sudore.
Deponemmo lo zaino in una spianata per goderci un po’ di riposo e quei tiepidi raggi. Un altro bosco, un’altra camminata per una mulattiera assai ripida e poi saremmo entrati nel primo paese greco che già si scorgeva e stuzzicava la curiosità.
Kionat non era molto grande: un piccolo villaggio di montagna. Le case erano raccolte in uno spazio fra due torrenti e la cima del monte. Quasi tutte erano costituite dal pianterreno e da un primo piano costruito con pietrame cementato col fango. Erano, però, linde e pulite, con vasi di fiori sul davanzale; sembrava che le donne non avessero, all’interno della casa, altra occupazione che quella dell’ordine e della pulizia che donano sempre grazia a qualunque povertà. Stridente contrasto con l’aspetto esterno del paese: vie che servivano da ruscello, da scolo, da deposito di immondizie e …… da strada. Non ho trovato in Kionat alcuna differenza caratteristica con i paesi dell’Albania meridionale. Quando vi entrammo il paese era vuoto perché la popolazione era fuggita sulla montagna con greggi, armamenti e masserizie. Qualche vecchia faceva capolino dalle imposte socchiuse, forse meravigliata che gli italiani non fossero quei “crudeli predatori” dipinti dalla propaganda greca. Il capo paese, con qualche anziano, attendeva le nostre truppe. Ai primi Alpini furono offerti noci e “rakì” (grappa).
Passando davanti a quegli uomini, che dalla piazzetta osservavano il nostro passaggio e che dalla faccia dimostravano di non essere proprio scontenti della nostra presenza, diedi il saluto il lingua greca: “kalimera!”
Non l’avessi mai fatto: quelli mi tempestarono di parole che, naturalmente, non capivo. Saputo poi che ero “prift” (che in albanese vuol dire prete), mi tolsero lo zaino e mi invitarono con l’attendente nella loro casa per il rituale rakì. A tutte le loro frasi ricordo di aver risposto “kalà” (bene), e a tutte le loro attenzioni “efcaristò” (grazie), ma non saprei e non saprò mai dire quante volte a proposito e quante a sproposito io abbia detto queste parole. Scendendo da Kionat verso un affluente del Molupotamos, che io chiamerò “torrente Kionat”, c’era, lungo il sentiero a destra, un tabernacolo. Era uno dei numerosissimi tabernacoli che si incontrano ovunque in territorio greco, con la immancabile immagine del “Panaghia” ed un lumicino davanti. Un Alpino si era appoggiato con una mano al muro del sacello; il viso gli si faceva sempre più pallido. Gli mancarono le forze e svenne.
Fu ricondotto al paese ed ebbe da quella gente delle attenzioni che non avrei sospettato. Dal paese di Kionat ci dirigemmo a quello di Turnovo. Il sentiero, dopo aver attraversato il torrente di Kionat sopra un ponte di legno, saliva fino ad una selletta, e da  questa, volgendosi a nord, scendeva lungo la riva destra del Molupotamos fino a Turnovo. I primi a mettere piede sulla sella, ove passava il sentiero, si accorsero che due soldati greci, tagliati i fili telefonici che entravano nella chiesetta di San Costantino posta sulla svolta del sentiero, stavano fuggendo con l’apparecchio; era il segnale che la tranquillità del villaggio poteva essere turbata e che il Molupotamos era stato fissato dal nemico per una prima resistenza. Infatti insieme al rumore del cannone molto lontano, si accordò subito di fronte a noi, nell’altra sponda del Molupotamos, quello di una mitragliatrice. L’effetto di questi due suoni poco gradevoli all’orecchio fu pessimo dal punto di vista psicologico. Nella salita alla sella due cavallini abbandonati aumentarono il nostro carico di quadrupedi. Le nuove bestie non accolsero mal volentieri la nuova destinazione e, accodate a quelle che avevano la riserva di fieno, si unirono anch’esse al servizio del battaglione. Intanto, sullo sperone, gli ufficiali si erano posti bocconi per tentare di scoprire la famigerata mitragliatrice. Il Capitano D’Alessandro, col cappello a sghembo in testa, come al solito, era ritto su un cucuzzolo per lo stesso scopo, nonostante i “scendi giù!” del Colonnello. “Un colpo in partenza!”, qualcuno sentenziò quando distinse uno scoppio lontano. “No, è di cannone?”, disse l’ufficiale della pattuglia O.C (pattuglia della sezione di artiglieria da montagna che aveva il compito di osservazione e collegamento con il resto della batteria; n.d.a.) che mi stava sdraiato accanto. 

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Turnovo 28 ottobre 1940 ore 11.00; il Capitano Scala (al centro
con gli occhiali) sta indicando al Tenente Colonnello Zacchi il
movimento dei greci sul costone di fronte al villaggio.

Non aveva ancora finito la frase che un fischio breve e improvviso, come di aria fustigata, ci fece sgranare gli occhi. “Porco …”, continuò l’ufficiale cui certamente l’emozione aveva tolto il dominio della lingua. Un’esplosione dal tono lacerante, presso la mulattiera alle nostre spalle, ci avvertì che la bomba era caduta. “Veramente questa bestemmia”, dissi all’ufficiale – “non è contemplata nelle istruzioni sul suo servizio!” “Ah, sei tu; scusami …” Ma non c’era tempo per le scuse; un secondo proiettile cadde più vicino a noi e la sua rosa di schegge investì da vicino il Tenente Periz. Altre granate caddero qua e là senza recare danno ne agli uomini ne ai muli, ma era evidente l’intenzione dei greci di colpire col mortaio la mulattiera e la sella allo scopo di ritardare la nostra avanzata e dare tempo al loro ripiegamento. Il battaglione continuò la sua marcia ed io rimasi con l’attendente presso la chiesetta per far accelerare il passo ai ritardatari; poi mi accordai agli ultimi. L’ordine era di camminare con distacco, ma il momento consigliava di correre con coraggio. La mulattiera era battuta dalla mitragliatrice e le pallottole sibilavano e colpendo le pietre restituivano un suono tagliente. I greci ci potevano seguire benissimo perché l’unica cosa che ci separava da loro era il letto del Mulopotamos. Il loro mortaio aveva invece spostato il suo tiro più a sinistra donde scendeva la 16° compagnia, ma dopo alcuni colpi cessò. Giungemmo a Turnovo.


Il gruppo Alpini Mirano festeggia gli 80 anni dalla fondazione

Il 28 settembre il Gruppo Alpini di Mirano ha celebrato gli 80 anni dalla sua fondazione. L’occasione si è prestata a ricordare, assieme a tutta la Sezione di Venezia, anche il 142° anniversario della costituzione delle Truppe Alpine.
L’evento si è svolto a Campocroce di Mirano e ha visto la presenza dei labari delle Sezioni di Udine, Vicenza, Padova e Venezia, dei gagliardetti di 19 Gruppi Alpini e di numerose rappresentanze delle Associazioni d’Arma.
Al solito, la cerimonia ha avuto inizio con l’alzabandiera seguita dallo sfilamento lungo il viale segnato dai quarantaquattro cippi in marmo che riportano nome, grado, date di nascita e di morte di tutti i caduti di Campocroce: 39 nella prima guerra mondiale e 5 nella seconda. A chiusura dello sfilamento è stata deposta una corona in onore ai caduti ai piedi della lapide alla base del campanile del paese.
I successivi cenni di saluto del Capogruppo Cipriano Bortolato, della Sindaca di Mirano Maria Rosa Pavanello e del Presidente sezionale Franco Munarini, hanno ricordato i temi caratterizzanti la manifestazione: il ricordo dei caduti a cento anni dall’inizio della Prima Guerra mondiale, del dramma e della sofferenza che ogni evento bellico porta con sé; il senso dell’essere alpini in armi e in congedo dopo quasi un secolo e mezzo di vita delle Truppe Alpine; il ricordo di una figura di fondamentale rilievo per gli alpini quale Don Bruno Martignon, cappellano dell’8° Alpini e reduce della guerra di Albania e Grecia.
Terminate le allocuzioni, i partecipanti sono affluiti alla Santa Messa, all’inizio della quale è stato benedetto il nuovo gagliardetto del Gruppo Alpini di Mirano consegnato dalla madrina, la professoressa Renata Cibin, Presidente del Consiglio comunale di Mirano.
Il nuovo gagliardetto, oltre a sostituire il precedente ormai consunto dal tempo, sancisce l’intitolazione del gruppo, oltre che al Cap. Costante Martello, a Don Bruno Martignon originario di Campocroce di Mirano.
La giornata si è conclusa con un parco rancio alpino ispirato alla tradizione gastronomica veneziana.
Se le fonti storiche riportano che nel 1934, ottant’anni fa, il gruppo poteva contare sulla partecipazione di 32 Alpini, l’attuale forza, che conta 47 Alpini e 5 Amici, mostra la vitalità degli Alpini di Mirano e il loro inserimento del tessuto sociale della cittadina veneta. L’organizzazione della manifestazione, infatti, ha visto la partecipazione attiva dell’Amministrazione comunale, la presenza della Filarmonica di Mirano che ha sottolineato tutti i momenti della cerimonia, del Coro Monti Scarpazzi che ha accompagnato la Santa Messa, del Comitato Uniti per Campocroce che ha fornito il supporto logistico e non ultima la collaborazione con Don Marino, parroco di Campocroce. In definitiva, si è trattato di una bella occasione per instaurare nuovi rapporti e rinsaldare quelli già esistenti con uno sguardo rivolto al futuro e a nuove forme di collaborazione con enti e associazioni del territorio del miranese.
Sepur apparentemente inconsueto, è bello vedere le penne degli Alpini fendere il cielo che sovrasta le ordinate pianure del “graticolato romano”. Saranno sicuramente molte anche quando festeggeremo i nostri 90 anni!



Riprese fotografiche a cura di Stefano Cassetta.